People standing and working around ruins of buldings.
Internati Militari Italiani durante lo smaltimento delle macerie a Brema © Staatsarchiv Bremen, 4.77/1-Foto-0536

Gli Internati Militari Italiani

Autore: Milan Spindler

L’8 settembre 1943: una svolta decisiva

Photo in black and white.
La foto mostra il personale di sorveglianza del Kommando di lavoro n. 884, annesso al campo per internati militari italiani situato al numero 41 della Oranienburger Straße, nel quartiere berlinese di Wittenau. Il cartello visibile sulla destra è redatto sia in tedesco che in italiano © BArch, Bild 183-J30386

L’8 settembre 1943, dopo aver combattuto fino ad allora a fianco della Germania nazista, l’Italia firmò un armistizio separato con le forze Alleate. La notizia della resa, resa pubblica inizialmente dagli Alleati e successivamente confermata da Badoglio, non colse impreparati i comandi militari tedeschi. Entrò subito in vigore l’Operazione Asse, che prevedeva l’occupazione da parte delle truppe tedesche delle regioni italiane ancora non raggiunte dagli Alleati — tra cui ParmaBarletta — e la cattura dei soldati italiani. Operazioni analoghe furono condotte anche nei territori che l’Italia controllava in Jugoslavia, Albania, Grecia e Francia meridionale.

Fin dai primi momenti della cattura e del disarmo, le truppe tedesche agirono con estrema brutalità contro i soldati italiani che cercavano di resistere. Nelle settimane immediatamente successive all’armistizio, oltre tremila tra ufficiali e soldati italiani furono uccisi, soprattutto nei Balcani e in Grecia. Tra gli episodi più ricordati nella memoria pubblica italiana ci sono i massacri di Cefalonia, Corfù e della cittadina croata di Trilj.

Dopo la cattura da parte della Wehrmacht, molti militari italiani furono bollati come "traditori" e trattati di conseguenza, con violenze e privazioni sistematiche. Pregiudizi razzisti e anticattolici — fino ad allora in parte celati dall’alleanza con l’Italia — emersero apertamente sia tra i soldati tedeschi che nella popolazione civile.

Anche durante il trasporto verso i campi di prigionia, in Germania e nella Polonia occupata, i prigionieri italiani furono costretti a sopportare condizioni di vita estremamente dure.

Cattura e trasporti

  • Black and white image of italian soliders that take a rest.
    Soldati italiani catturati dalle truppe tedesche a Corfù nel settembre 1943 © BArch, Bild 101I-177-1459-18
  • Soldati tedeschi perquisiscono membri delle forze armate italiane dopo la cattura © BArch, Bild 101I-569-1584-29A
  • Black and white image.
    Militari della Wehrmacht supervisionano la registrazione di prigionieri di guerra italiani disarmati nel sud della Francia, 21 settembre 1943 © BArch, Bild 183-J15447
  • Black and white image.
    Soldati italiani catturati l'11 settembre 1943 attraversano le strade di Bolzano, scortati verso un campo di raccolta © BArch, Bild 183-J15358
  • Black and white image.
    Colonna di soldati italiani catturati a Corfù in marcia © BArch, Bild 101I-177-1459-32
  • Soliders in a military car. One is currently climbing in, while a group of them already sits in the car. Two people are standing. There is anther car visible in the background.
    Militari del Regio Esercito salgono su un autocarro dopo il disarmo a Roma; in primo piano un tenente dei paracadutisti tedeschi © BArch, Bild 101I-305-0654-05
  • Black and white image. Soliders around a train, moving luggage.
    In una stazione dei Balcani o della Grecia, soldati italiani caricano beni e materiali nei vagoni di un treno delle Ferrovie dello Stato sotto la sorveglianza delle guardie tedesche © BArch, Bild 101I-176-1368-21
  • Black and white image of people moving things and themselfs into a train.
    Prigionieri italiani caricano un treno con i loro averi in un luogo sconosciuto della penisola balcanica © BArch, Bild 101I-176-1367-35

L' “invenzione” degli Internati Militari Italiani

Sebbene i circa 700.000 soldati italiani catturati fossero inizialmente classificati come prigionieri di guerra, e dunque posti sotto la protezione della Convenzione di Ginevra, quasi subito dopo l’Armistizio la Germania li ridefinì come “Internati Militari Italiani” (IMI). Di conseguenza, gli italiani persero ogni forma di protezione legale sia nei campi di prigionia della Wehrmacht sia durante il lavoro forzato, nonché l’assistenza del Comitato Internazionale della Croce Rossa.

Gli internati furono deliberatamente sottoposti a un’alimentazione insufficiente, regolata in base al rendimento lavorativo (cosiddetta Leistungsernährung): malattie, ferite o qualsiasi altra condizione che ne compromettesse la capacità lavorativa venivano punite senza riguardo con la riduzione delle razioni alimentari.

In violazione del diritto internazionale, i soldati italiani furono impiegati con particolare frequenza come lavoratori forzati in settori strategici per l’economia di guerra, come l’industria degli armamenti e l’attività mineraria. L’istituzione di questo status speciale di “internato militare” costituì, in definitiva, una forma aggravata di prigionia non conforme al diritto internazionale, e rappresentò una misura punitiva, voluta da Hitler per colpire gli “italiani traditori”.

La prigionia nel Reich tedesco

Black and white photo.
Soldati italiani all'appello nel campo di prigionia di Sandbostel © Fondo fotografico Vittorio Vialli, Instituto storico Parri - Bologna Metropolitana

Resistenza senz'armi

Subito dopo la cattura, e anche nei mesi successivi, ai soldati italiani prigionieri fu più volte offerta la possibilità di essere liberati dai campi e dal lavoro forzato, a condizione che accettassero di proseguire la guerra al fianco della Germania. Potevano scegliere se arruolarsi direttamente nella Wehrmacht oppure entrare a far parte delle nuove forze armate della Repubblica Sociale Italiana (RSI), lo Stato fantoccio guidato da Benito Mussolini e sostenuto dalla Germania nel Nord Italia.

Per la RSI, la creazione di un proprio esercito rappresentava un’occasione per affermare una maggiore indipendenza rispetto all’ingombrante alleato tedesco. La decisione tedesca di impiegare i soldati italiani come manodopera forzata generò infatti tensioni all’interno di un’alleanza già sbilanciata. Durante lunghi appelli nei campi, i reclutatori della RSI tentarono in ogni modo di convincere i prigionieri ad arruolarsi.

La grande maggioranza dei soldati rifiutò e rimase in prigionia fino alla fine del conflitto. A motivare questo rifiuto — definito in seguito Resistenza senza armi, in riferimento simbolico al movimento partigiano — furono molte ragioni, spesso tra loro intrecciate: una profonda sfiducia nei confronti dei tedeschi e delle loro promesse, il giuramento prestato al re Vittorio Emanuele III, rifugiatosi nel Sud Italia sotto il controllo degli Alleati, il timore di essere mandati a combattere sul fronte orientale, e la profonda delusione nei confronti del fascismo e di Benito Mussolini.

Soldati italiani al lavoro forzato

I soldati italiani deportati nel Reich tedesco a partire dall’autunno del 1943 divennero una risorsa indispensabile per l’economia di guerra nazista. Il progressivo arruolamento di giovani tedeschi nella Wehrmacht aveva lasciato scoperti molti settori della produzione, e l’arrivo di centinaia di migliaia di lavoratori italiani fu accolto con favore sia dal governo che dall’industria tedesca.

Nonostante il cambiamento della loro condizione giuridica, gli Internati Militari Italiani (IMI) furono assegnati al lavoro forzato dalla Wehrmacht, che ne gestiva la distribuzione nei vari distretti militari (Wehrkreise). Mentre gli ufficiali venivano in genere trattenuti negli Oflag (campi per ufficiali), i sottufficiali e i soldati semplici venivano registrati negli Stalag (campi per la truppa) e successivamente destinati ai rispettivi luoghi di lavoro.

La quotidianità degli IMI nei contesti di lavoro forzato era segnata da un circolo vizioso di fatica estrema, fame e malattia. I prigionieri che, a causa di malattie, non riuscivano a mantenere il ritmo richiesto, ricevevano razioni alimentari ancora più ridotte, indebolendosi ulteriormente. Questo portava spesso alla diffusione di epidemie che, in assenza di cure mediche adeguate, risultavano rapidamente letali. Migliaia di IMI morirono per le conseguenze della fame, dello sfinimento e delle malattie — in particolare della temuta tubercolosi.

La loro vita era messa in pericolo non solo dalla fame, dalle malattie o dagli abusi da parte delle autorità tedesche. Molti di loro erano impiegati nell’industria bellica o in infrastrutture strategiche come le stazioni ferroviarie, e alloggiavano spesso nelle immediate vicinanze di questi obiettivi. Proprio queste zone erano bersaglio frequente dei bombardamenti alleati. Tuttavia, ai lavoratori forzati era sistematicamente negato l’accesso ai rifugi antiaerei. A ciò si aggiungeva il rischio, altrettanto letale, di essere costretti a partecipare alle operazioni di sgombero e di restare vittime dell’esplosione di ordigni inesplosi.

Nell’estate del 1944, gli IMI furono formalmente trasferiti allo status di lavoratori forzati civili: venne abolito il sistema di alimentazione legato al rendimento (Leistungsernährung) e i prigionieri non dipendevano più dalla Wehrmacht. Con questa trasformazione, la leadership nazista sperava di ottenere un aumento della produttività. Tuttavia, molti IMI protestarono contro il cambiamento. Temevano da un lato di perdere la relativa protezione che, come internati militari, li aveva fin lì sottratti all’arbitrio della Gestapo; dall’altro, temevano che, una volta rientrati in Italia, questo nuovo status potesse farli passare per collaboratori volontari del regime tedesco.

  • A Photo of a destroyed street. The houses are destroyed and lay in ruins. A group of poeple stands on the left side of the picture.
    Internati Militari Italiani durante lo smaltimento delle macerie a Brema © Staatsarchiv Bremen, 4.77/1-Fotos-3094
  • People standing and working around ruins of buldings.
    Internati Militari Italiani durante lo smaltimento delle macerie a Brema © Staatsarchiv Bremen, 4.77/1-Foto-0536

Tra paura e speranza: gli ultimi giorni di guerra fino alla liberazione

La fine della guerra

Le ultime settimane prima della liberazione dei campi e della fine del lavoro forzato, nella primavera del 1945, furono per gli internati un periodo carico allo stesso tempo di pericoli e di speranze. Sempre più informazioni filtravano dall’esterno, e la superiorità aerea alleata faceva ormai presagire la vittoria imminente. Tuttavia, i frequenti bombardamenti, i combattimenti sempre più ravvicinati e il collasso delle infrastrutture tedesche rendevano sempre più difficili i rifornimenti di cibo e medicinali nei campi di prigionia e nei luoghi di lavoro. Il progressivo peggioramento della situazione dei rifornimenti aggravò ulteriormente le già precarie condizioni di vita dei prigionieri.

Questa deteriorata condizione veniva percepita come ancora più minacciosa rispetto al passato: per molti Internati Militari Italiani (IMI), l’incubo era ammalarsi o morire proprio a ridosso della liberazione. In molti campi si assisteva a un indebolimento della solidarietà tra prigionieri, sostituita da una crescente disperazione e da atteggiamenti egoistici. Le voci insistenti su un’imminente evacuazione dei campi contribuivano ad aumentare l’angoscia, soprattutto tra i malati, che temevano di non avere le forze per affrontare una marcia forzata — una condanna a morte.

Così, nei giorni e nelle settimane immediatamente precedenti l’arrivo delle truppe alleate, lo stato d’animo di molti IMI oscillava tra la speranza e il timore. Il comportamento delle guardie, della Gestapo e anche di parte della popolazione civile tedesca si fece via via più ostile, facendo temere azioni di vendetta anche su scala locale. Come dimostrarono i numerosi massacri perpetrati in questa fase finale della guerra — a opera di militari tedeschi, guardie dei campi, Gestapo, SS, Gioventù hitleriana, Volkssturm e persino cittadini comuni — queste paure erano tutt’altro che infondate. A Kassel, Hildesheim e nei pressi di Treuenbrietzen, centinaia di italiani furono uccisi proprio nei giorni che precedettero la liberazione.

Negli ex territori orientali del Reich, gli IMI guardavano con preoccupazione all’avanzata dell’Armata Rossa. Oltre all’ostilità della popolazione tedesca, temevano infatti possibili ritorsioni da parte delle forze sovietiche per il coinvolgimento delle truppe italiane nell’invasione dell’Unione Sovietica tra il 1941 e il 1943. Questo timore ebbe un peso non trascurabile sull’umore degli internati, molti dei quali vissero la fine della guerra con sentimenti ambivalenti e avrebbero preferito essere liberati dagli Alleati occidentali.

People in front of some sort of building.
Internati Militari Italiani a Lipsia dopo la liberazione nell'aprile 1945 davanti alla loro baracca bombardata © Collezione fotografica Famiglia Caroli, Maria Caroli

Dopo la liberazione

Dopo la fine della guerra, gli Alleati pianificarono il rimpatrio dei prigionieri di guerra italiani, che ora venivano considerati Displaced Persons (persone sradicate), al pari di molti altri ex lavoratori forzati e sopravvissuti. Il rientro fu organizzato in gruppi scaglionati nel tempo, attraverso campi di transito, per evitare che si verificassero rientri individuali disordinati e potenzialmente caotici. In media, trascorrevano da quattro a cinque mesi tra la liberazione e il rimpatrio degli Internati Militari Italiani (IMI).

Rispetto agli ex prigionieri polacchi o sovietici, la restituzione degli italiani fu relativamente rapida, sebbene avvenisse in tempi più lunghi nella zona di occupazione sovietica. I ritardi erano legati a differenze strutturali nella logistica delle potenze vincitrici e a maggiori difficoltà linguistiche.

Al Brennero, gli IMI venivano accolti in appositi punti di ristoro e poi trasferiti nei campi di transito, da cui potevano essere avviati verso le rispettive città d’origine. Complessivamente, in questi campi furono registrati 635.132 ex Internati Militari. Si stima che altre 150.000 persone siano rientrate senza ricorrere a trasporti collettivi organizzati.

Secondo le stime, oltre 50.000 Internati Militari Italiani morirono durante la prigionia in Germania, e circa 10.000 risultano tuttora dispersi.

  • Das Bild zeigt italienische Kriegsgefangene, die nach ihrer Freilassung in einem LKW aus Österreich nach Italien gebracht werden. Im Vordergrund weist ein Schild auf den Brennerpass hin, während im Hintergrund ein weiteres Rotkreuz-Fahrzeug mit unleserlichem Plakat zu sehen ist.
    L'immagine mostra ex prigionieri di guerra italiani trasportati dall'Austria all'Italia su un camion della Croce Rossa dopo la loro liberazione. Un veicolo di accompagnamento reca una scritta che identifica gli uomini come rimpatriati dalla provincia di Pavia. In primo piano, un cartello indica il Brennero © US-NARA, Signal Corps 205742
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    Retro della foto © US-NARA, Signal Corps 205742

Le difficoltà del dopoguerra

Il rientro e la memoria

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Cerimonia in occasione dell'80° anniversario dell'8 settembre 1943 davanti al Tempio Nazionale dell'Internato Ignoto © Milan Spindler

I rimpatriati trovarono un’Italia profondamente trasformata, sia dal punto di vista politico che sociale. Dopo la fine della guerra in Italia, la Resistenza venne celebrata come il grande mito fondativo di un’Italia che aveva contribuito in prima persona alla propria liberazione dal fascismo. Al contrario, gli Internati Militari Italiani (IMI), al loro rientro, furono spesso ignorati oppure accolti con diffidenza. Da un lato venivano accusati di collaborazionismo, per aver lavorato nell’industria bellica tedesca; dall’altro, su di loro pesava il sospetto di simpatie neofasciste.

La loro presenza evocava inevitabilmente, nella memoria collettiva, la “vergogna dell’8 settembre” — il dissolvimento dell’esercito italiano senza combattere e la fuga del re. Non furono riconosciuti né come protagonisti della vittoria contro il “nazifascismo”, come i partigiani, né come vittime del fascismo. Al contrario, vennero in parte identificati come sostenitori del regime e talvolta screditati dagli ex combattenti della Resistenza.

Al disorientamento per il profondo cambiamento della società italiana si aggiunse, per molti, il dolore per la notizia della morte di familiari, che segnò il rientro con un ulteriore trauma. Trovare un lavoro fu spesso molto difficile. Molti ex internati scelsero il silenzio e non parlarono mai delle proprie esperienze, neppure in famiglia. Intanto, la Resistenza si impose al centro della cultura della memoria, sia a livello locale che nazionale, relegando in secondo piano le vicende di altri gruppi di vittime.

Una delle poche eccezioni fu rappresentata dall’ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati), fondata nel dopoguerra per offrire una voce politica agli ex IMI. Da aprile 2024, il Senato e la Camera dei deputati stanno discutendo l’istituzione di una Giornata della Memoria per ricordare la loro vicenda. La data proposta è il 20 settembre, giorno in cui, su ordine diretto di Adolf Hitler, i prigionieri di guerra italiani furono riclassificati come Internati Militari.

Per decenni, i documenti personali (Ego-Dokumente) degli ex IMI rimasero nascosti negli archivi familiari. Solo con la generazione dei figli e dei nipoti iniziò un interesse più diffuso per le storie vissute da padri, zii e nonni. Per molti ex internati, il silenzio fu una forma di protezione psicologica, un modo per convivere con il trauma e, in qualche modo, chiudere con il passato.

Riscoprire gli IMI: ricerca, memoria, testimonianza

Book Cover
Gerhard Schreiber, Die italienischen Militärinternierten im deutschen Machtbereich 1943 - 1945, Beiträge zur Militärgeschichte, Band 28, Oldenbourg, München, 1990.

Nonostante il silenzio mantenuto dalla generazione che ha vissuto direttamente questa esperienza, negli ultimi anni il tema degli Internati Militari Italiani (IMI) ha ricevuto una crescente attenzione, sia in Italia che, in misura minore, in Germania. Una nuova generazione di membri delle associazioni dei reduci si sta impegnando a trasmettere la storia degli IMI attraverso iniziative museali e digitali, con un approccio più attuale.

Parallelamente, sono state pubblicate di recente numerose opere scientifiche e divulgative sull’argomento, oltre a diari e memorie di sopravvissuti, spesso resi noti dai loro figli o nipoti. Anche nelle università, nei memoriali e negli istituti di ricerca storica in Germania e in Italia, studiosi, discendenti e associazioni si stanno dedicando con crescente attenzione allo studio dell’internamento dei soldati italiani, sebbene vi siano ancora ampie lacune nella ricerca.

Un esempio significativo riguarda i grandi campi IMI situati nell’attuale Polonia, su cui esiste pochissima letteratura. Un’analisi più approfondita di questi campi sarebbe indispensabile per comprendere appieno la storia degli IMI, poiché molti di loro furono internati nella Polonia occupata prima di essere trasferiti nel territorio del Reich.

Nel 1990, Gerhard Schreiber ha pubblicato la prima opera tedesca di riferimento sulla storia dei prigionieri di guerra italiani e sulla loro successiva riclassificazione come Internati Militari in Germania. Per la prima volta, temi centrali come la prigionia, lo status giuridico, il lavoro forzato e i crimini della fase finale della guerra sono stati analizzati scientificamente da una prospettiva tedesca in un volume di diverse centinaia di pagine.

Il libro è stato insignito del Premio per pubblicazioni storiche della città di Acqui e ha rappresentato la base per ulteriori ricerche sul tema, tra cui quelle condotte da Gabriele Hammermann.

Giustizia parziale, responsabilità eluse

Sia nella Repubblica Federale Tedesca che nella Repubblica Democratica Tedesca, l'internamento degli IMI e il loro sfruttamento nel lavoro forzato furono perseguiti penalmente, ma di norma condannati con pene lievi e solo quando associati ad altri crimini, come esecuzioni sommarie o maltrattamenti.

Ad esempio, Franz Marmon, comandante della Sicherheitspolizei e del Sicherheitsdienst (SD) a Kassel, fu condannato a due anni di carcere il 5 febbraio 1952 dalla corte d’assise del tribunale distrettuale di Kassel. Il 31 marzo 1945, poco prima dell’arrivo dell’esercito americano, aveva ordinato la fucilazione di 78 IMI alla stazione ferroviaria di Kassel-Wilhelmshöhe.

Nei processi del dopoguerra furono puniti solo i principali responsabili delle deportazioni nel Reich tedesco a fini di lavoro forzato e "schiavitù". Tuttavia, nessuno fu mai incriminato o condannato per l’ingiustizia collettiva di aver privato i soldati italiani del loro status di prigionieri di guerra e di averli costretti, a centinaia di migliaia, ai lavori forzati.

Nessuna riparazione: il lungo silenzio giuridico sugli IMI

Nel dopoguerra, né la nuova Repubblica Italiana, né la Repubblica Federale Tedesca, né la Repubblica Democratica Tedesca prevedevano alcuna forma di risarcimento o Wiedergutmachung (riparazione morale e materiale) per gli Internati Militari Italiani (IMI), deportati e costretti al lavoro forzato.

L’Accordo sul debito estero tedesco firmato a Londra nel 1953 rinviò le richieste di risarcimento avanzate dagli ex lavoratori forzati stranieri a un futuro trattato di pace, mai formalizzato, bloccando di fatto qualsiasi rivendicazione da parte italiana.

Anche gli accordi bilaterali, come quello del 2 giugno 1961 tra Italia e Germania, destinato a indennizzare le vittime delle persecuzioni naziste, esclusero esplicitamente i prigionieri di guerra italiani. Le autorità tedesche sostennero che, nonostante la riclassificazione del settembre 1943 e il cambio di status dell’estate 1944, gli IMI fossero da considerarsi ininterrottamente come prigionieri di guerra — sebbene il regime nazionalsocialista li avesse ufficialmente rinominati e trattati in modo differente.

Nonostante le discussioni sorte tra gli anni Ottanta e Novanta, nel 2001 la Fondazione “Memoria, Responsabilità e Futuro” (Stiftung Erinnerung, Verantwortung und Zukunft, EVZ), in accordo con i tribunali amministrativi tedeschi, non riconobbe l’ingiustizia subita dagli IMI come crimine contro l’umanità. In questo modo, di fatto, fece propria — sia pure implicitamente — la linea difensiva adottata dagli imputati nei processi del dopoguerra contro gli organizzatori del sistema del lavoro forzato nazista.

Durante i processi successivi a Norimberga, ad esempio contro i grandi gruppi industriali e l’Ufficio Centrale per l’Amministrazione Economica delle SS, si sostenne che l’impiego su vasta scala di manodopera forzata fosse una “conseguenza inevitabile della guerra”.

I tentativi degli ex prigionieri di guerra italiani di far valere individualmente i propri diritti sono finora falliti nei tribunali al di fuori dell’Italia, compresi la Corte Costituzionale Federale Tedesca, il Tribunale Amministrativo di Berlino e la Corte Europea dei Diritti Umani.

Di conseguenza, gli ex IMI ancora in vita restano esclusi da ogni forma di risarcimento da parte dello Stato tedesco e delle imprese coinvolte. A ciò si aggiunge il mancato riconoscimento delle retribuzioni maturate durante il periodo di lavoro forzato, mai corrisposte all’epoca e tuttora trattenute.

In Italia, al contrario, negli ultimi anni i tribunali hanno riconosciuto agli ex Internati Militari il diritto al risarcimento. Dal 2022, in seguito a queste sentenze, gli ex IMI e i loro familiari possono presentare domanda di indennizzo attraverso un fondo statale appositamente istituito.

Fonti

Attualmente non esiste un archivio centrale dedicato esclusivamente alla ricerca sugli Internati Militari Italiani (IMI). Tuttavia, sia in Italia che in Germania, sono accessibili numerosi archivi che offrono informazioni rilevanti su vari aspetti di questa complessa vicenda storica. In Italia, l’Archivio del Ministero della Difesa, con sede a Roma, conserva fascicoli biografici e documentazione militare di molti soldati italiani. Tali documenti possono contenere indizi utili per identificare un internamento, soprattutto nei casi in cui il soggetto abbia trascorso un periodo nel Reich tedesco e abbia successivamente fatto richiesta di riconoscimento pensionistico. 

La rete degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea, diffusa su base regionale e locale, conserva testimonianze, memorie, diari e documenti di registrazione riguardanti ex IMI originari delle rispettive aree di competenza. 

In Germania, molte informazioni sulla prigionia degli IMI — in particolare nei campi Stalag e Oflag della Wehrmacht — sono contenute nelle schede personali dell’ex Servizio Informazioni della Wehrmacht (Deutsche Dienststelle/WASt), oggi custodite presso l’Archivio federale tedesco (Bundesarchiv), nella sede di Berlino-Tegel, sezione PA. 

Per quanto riguarda il lavoro forzato, il censimento e il rimpatrio degli IMI nel dopoguerra, è disponibile una ricca documentazione consultabile tramite il portale digitale degli Archivi Arolsen (Arolsen Archives – International Center on Nazi Persecution). Ulteriori informazioni sull’impiego lavorativo si trovano anche nei documenti aziendali. 

Nella Germania occidentale, tali documenti si conservano prevalentemente negli archivi aziendali privati. Nella Germania orientale, invece, a causa della statalizzazione delle imprese nel periodo socialista, le fonti relative al lavoro forzato si trovano oggi per lo più negli archivi statali regionali (Staats- und Landesarchive).

Bibliografia Italiana

Quinto Casadio, Una resistenza rimasta nell'ombra, L’8 settembre 1943 e gli Internati Militari Italiani in Germania, La Mandragora, Imola 2004.

Christiane Glauning, Tra più fuochi, La storia degli Internati Militari Italiani 1943-1945, Fondazione Topografia del Terrore, Berlino, 2017.

Gabriele Hammermann. Gli internati militari italiani in Germania, 1943 -1945, Il Mulino, Bologna, 2019.

Adolfo Mignemi, Storia fotografica della prigionia dei militari italiani in Germania, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.

Alessandro Natta, L'altra resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino, 1997.

Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich (1943-1945), traditi, disprezzati, dimenticati, Stato Maggiore dell'Esercito-Ufficio Storico, Roma, 1992 (edizione originale: Die italienischen Militärinternierten im deutschen Machtbereich 1943-1945. Verraten. Verachtet. Vergessen, R. Oldenbourg, München 1990).

Susanne Wald / Enrico Iozzelli, Abbiamo detto “No”, Dieci internati militari italiani nei campi nazisti 1943-1945, Comites Hannover, Hannover, 2022.

© Progetto "Le stragi nell’Italia occupata (1943-1945) nella memoria dei loro autori".

2025

Testo: CC BY NC SA 4.0

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